
Le parole degli altri
Considerazioni sull’IA, copyright e traduzione
Oh no, un altro articolo sull’Intelligenza Artificiale!
Ebbene sì. Lo so che il web brulica di testi, commenti e considerazioni che affrontano questa tematica, e soprattutto tra coloro che lavorano nel settore della comunicazione – da traduttori a copywriter – si sta consolidando una spartizione netta tra due blocchi: chi accoglie l’IA come un ottimo (e inarrestabile) strumento per agevolare il proprio lavoro e chi, al contrario, la considera una minaccia e un pericolo per la propria professione.
Dove collocarsi in questo marasma di informazioni?
Con questo breve articolo vorrei esprimere la mia opinione (non richiesta) e cercare di fare un po’ di chiarezza in merito a questa tecnologia che sta sconvolgendo un po’ tutto e tutti.
L’IA generativa
Partiamo subito da un chiarimento brutale: nonostante la denominazione un po’ fuorviante, l’IA non “genera” dal nulla. L’aggettivo “generativa” fa riferimento alla sua incredibile capacità di generare risposte simili a quelle umane basandosi sui migliaia e migliaia di dati con cui viene nutrita. Ma non voglio tediarvi con spiegazioni sul suo funzionamento; online troverete molti validi articoli in merito, tra cui quello di IBM e quello di Oracle.
Il mondo della comunicazione
Il focus su cui mi preme orientarmi sono le conseguenze dell’IA nel comparto linguistico-comunicativo. Da traduttrice, è chiaro che questo tema mi è molto caro, non solo nella possibilità che l’IA “uccida” tutti i traduttori nel corso di pochi anni (come gentilmente auspicato e pubblicizzato da alcune grandi aziende), ma anche per le ripercussioni nell’ambito della privacy e del copyright. Come accennato, l’IA genera risposte in base ai dati con cui viene nutrita, e qua arriviamo al punto fondamentale: quali dati? E di chi?
Se si chiede a ChatGPT di tradurre un testo o comporre un articolo per noi, lo strumento risponde processando un numero incalcolabile di dati, stringhe di testo e altre informazioni che ha setacciato nel vasto mondo del web. Ora, queste informazioni, però, appartengono a qualcuno e da qualcuno sono state scritte; il fatto che siano online non significa che siano prive di copyright e liberamente utilizzabili. La legge italiana sul diritto d’autore, la Legge n. 633/1941, è chiara: il copyright «comprende quell’insieme di diritti e facoltà che appartengono all’autore di un’opera dell’ingegno e che gli consentono di rivendicarne la paternità e di utilizzare economicamente la creazione attraverso la sua riproduzione, distribuzione e diffusione» (Fonte: Altalex, dove potete trovare una spiegazione più dettagliata). Nel caso di una traduzione, la faccenda si fa ancora più complessa: se, ipoteticamente, nel web non esistessero testi tradotti da traduttori, l’IA non potrebbe generare una vera traduzione, ma limitarsi a cercare una corrispondenza, parola per parola, tramite altre fonti (come i vocabolari), per rendere una trasposizione in un’altra lingua. Invece, l’IA utilizza i dati elaborati e prodotti dagli umani (ossia, le traduzioni), per trovare corrispondenze già delineate nelle migliaia e migliaia di stringhe a sua disposizione.
Questo meccanismo opera in una zona grigia dove, giustamente, molti si interrogano su quanto sia etico, corretto e legale utilizzare quelle che sono a tutti gli effetti “opere dell’ingegno” di terzi per creare un prodotto derivato. Ci tengo a precisare che questo discorso riguarda, per quanto mi concerne, non l’utilizzo limitato e privato che ne può fare il singolo utente che vuole scrivere un post per Instagram o automatizzare l’invio di e-mail, quanto lo sfruttamento da parte di aziende che, facendo leva su questa nuova tecnologia, cercano di aumentare i propri margini di profitto eliminando o riducendo gradualmente l’importanza attribuita al fattore umano. Il paradosso? Lo stanno facendo utilizzando proprio le competenze e l’esperienza umane che mirano a sostituire.
Una questione di copyright e percezione
Chi lavora nel settore della comunicazione lo sa perfettamente: da sempre si lotta per far riconoscere la dignità di “lavoro” a tutto quello che è opera dell’ingegno. Scrittori, content creator, linguisti e traduttori si scontrano dall’inizio dei tempi con un muro di pregiudizio, per cui ciò che creano non è “di valore” e di conseguenza viene retribuito poco o nulla. Ora, con l’IA, la percezione non potrà, a mio avviso, che peggiorare.
Facciamo un piccolo esperimento. Ipotizziamo che voi abbiate in mano un libro, che avete comprato in libreria e che state leggendo anche con gusto, e a un certo punto, a sorpresa, compare la frase: “questo libro è stato scritto dall’IA”. Come vi sentireste? Lo apprezzereste allo stesso modo e, soprattutto, vi sentireste a vostro agio nell’aver pagato per intero il prezzo di copertina (ipotizziamo, di 18 euro)? E considerereste quell’autore o autrice allo stesso livello di uno scrittore o scrittrice “a tutto tondo”?
Molti potrebbero replicare che non c’è una vera differenza: l’autore gode sempre della paternità dell’opera, quell’opera è comunque sua perché c’è il suo contributo personale. Su questo, però, credo ci sia un margine di discussione. Nella creazione di un contenuto scritto l’idea non basta, e a concorrere all’identità di un’opera scritta contribuiscono anche le parole scelte, lo stile, la struttura, i dialoghi. Tutte scelte personali che convergono ad affinare e plasmare la poetica dell’autore. Si può dire che l’idea costituisca il 50% dell’opera (il contenuto), mentre il resto (la forma/contenitore) copre la restante metà. Ritornando quindi al discorso della paternità di un’opera scritta, se è vero che l’idea è sempre e soltanto riconducibile all’autore, la forma che ne deriva (generata dalla macchina) può considerarsi egualmente sua? O la mancanza di un contributo personale a quel restante 50% rende la sua opera zoppa? Se mi trovo di fronte a due testi, entrambi con un contenuto valido (frutto indiscutibile dell’autore), ma uno è stato scritto da un umano e l’altro dalla macchina, quale dei due “vince” dal punto di vista etico? L’autore umano, che vi ha contribuito sia per l’idea sia per la forma in cui è esposta, o l’autore umano-macchina, perché comunque il suo contenuto è ugualmente valido e di conseguenza la forma passa in secondo piano come criterio di valutazione? Incapace di dare una risposta a questa domanda, prendo intanto atto che su internet stanno già proliferando nuovi strumenti antiplagio per identificare testi potenzialmente artificiali, così come “contro-strumenti” che promettono di rendere il testo artificiale più umano (come Talkai). Nel frattempo, alcuni colossi dell’editoria, come Penguin Random House, stanno prendendo provvedimenti proprio per evitare che il copyright dei loro autori e autrici venga violato, imponendo un deciso divieto all’utilizzo delle loro opere per addestrare l’IA (potete trovare la loro dichiarazione d’intenti qui).
Un’altra obiezione che potrebbe essere mossa è che noi per primi spargiamo contenuti online di qualsiasi genere senza preoccuparci della privacy, da commenti sui social ad articoli su blog. Si tratta, a tutti gli effetti, di contenuti pubblici. Onestamente, però, ritengo che vi sia una differenza tra mettere a disposizione di un lettore un contenuto e permettere che quel contenuto venga utilizzato per addestrare la macchina e, di conseguenza, generare infine altri contenuti (con potenziale sfruttamento commerciale). Se il diritto morale di un’opera rimane sempre prerogativa dell’autore, ne consegue che se anche la sua opera è online e disponibile per tutti, ciò non la rende in automatico “open-source”, cioè usabile e modificabile da altri. Il che però è esattamente ciò che succede quando il testo viene “mangiato” dagli enormi data set che processano gli output dell’IA. Già adesso stanno emergendo situazioni dubbie che si sviluppano nell’ombra di quei termini e condizioni e di quelle informative sulla privacy che tutti accettano e nessuno legge. Per approfondire l’argomento, un articolo del Times of India riporta le parole dello sviluppatore Suchir Balaji, la sua denuncia nei confronti di OpenAI e la sua opinione sui labili confini del cosiddetto “uso legittimo”.
Questo discorso vale, ovviamente, per molti altri casi di professioni legate alla sfera culturale e intellettuale e non solo: composizione di musica, illustrazione, graphic designing, progettazione di siti web, social media managing, istruzione e, dulcis in fundo, ovviamente la traduzione.
E ora che si fa?
Ogni rivoluzione porta con sé luci e ombre e l’IA non fa eccezione, ed è compito di ciascuno di noi utilizzare questa tecnologia con cognizione e responsabilità, soprattutto ora che è relativamente agli inizi e ci sono molte ricadute di cui ancora non si conosce la portata.
In primo luogo, dobbiamo ricordarci che questa tecnologia ha un fortissimo impatto ambientale. Sebbene sia lungi dal chiedere di ridurre il numero di server, che sostengono le nostre società via via sempre più digitalizzate, come per ogni altro strumento bisognerebbe avere un minimo di coscienza personale e di equilibrio. L’intero comparto digitale, di cui tutti facciamo uso ogni giorno, impatta fortemente sull’ambiente, per cui è necessario essere molto cauti nel momento in cui utilizziamo uno strumento che impatta ancora di più. Prima di ricorrere all’IA, chiediamoci: mi serve davvero? O è una cosa che posso fare anche da solo? Ogni input inserito nella macchina richiede una grande quantità di energia per essere processato; in più, i server hanno sete e utilizzano quella preziosa acqua che è una risorsa limitata e si sta esaurendo (qui trovate maggiori informazioni).
In secondo luogo, sarebbe decisamente auspicabile una regolamentazione dei contenuti. I casi possibili sono, a mio avviso, due:
1. Allargare l’ambito di applicazione e protezione del copyright, impedendo che le opere dell’ingegno vengano utilizzare per addestrare l’IA senza il consenso dell’autore;
2. Imporre alle aziende che addestrano l’IA di pagare i dovuti diritti d’autore per tutti i dati che utilizzano. Se io riproduco della musica durante un matrimonio, li devo pagare i diritti alla Siae, no?
Terzo: un’ultima considerazione per quanto riguarda il mondo della traduzione. Sarà forse un’opinione controcorrente, ma per i clienti finali (battete un colpo se ci siete!) non si sta verificando un vero e proprio risparmio. Far leva sull’IA per gestire volumi di traduzione più ampi non ha come scopo quello di alleggerire la fattura finale al cliente, quanto aumentare il margine di profitto dell’intermediario (il famoso fornitore di servizi linguistici, l’LSP). Certo, il tutto può essere fatto più velocemente e su questo non ci sono dubbi, ma anche in questo caso si tratta di un vantaggio relativo: se poi i risultati sono compromessi (come spesso capita), bisogna rivedere tutta la traduzione, con un conseguente spreco di tempo che a questo punto si sarebbe potuto dedicare a produrre una traduzione ben fatta sin dall’inizio.
Anche per i singoli traduttori i vantaggi legati all’utilizzo dell’IA sono relativi: c’è chi vanta aumenti vertiginosi di produttività e chi no; è tutto estremamente soggettivo e probabilmente dipende anche dal tipo di lavoro che si svolge. Il vero impatto dell’IA nel settore della traduzione si riscontra, di nuovo, nella percezione: con le LSP che sfruttano l’IA pubblicizzandola come uno strumento di velocità e risparmio e di “rivoluzione” del settore, è fisiologico che quel risparmio ricada sul traduttore, perché è sulle tariffe ancora più basse offerte al professionista umano che si realizza il margine di ricavo. In realtà, credo vi sia addirittura una specie di “paradosso della produttività”, dove il traduttore/linguista si ritrova, appunto paradossalmente, a svolgere il doppio del lavoro per una tariffa più bassa, vittima dell’illusione di un migliorato flusso di lavoro. In altre parole, il traduttore è sì più produttivo, ma pur lavorando di più guadagna quanto prima o addirittura di meno, perché le tariffe, dall’altro lato, scendono. La grande “lotta” che infuria ora nel mondo della comunicazione/lingua non è tanto tra i professionisti e l’IA, quanto tra i professionisti e le tariffe ulteriormente ridotte.
In conclusione, il futuro che vedo per il comparto linguistico è tutt’altro che roseo. Non si tratta solo della questione dei professionisti “buttati fuori” dal mercato, ma di un impatto a lungo termine nell’intera produzione linguistica e nell’industria della comunicazione. Un impatto già avviato dall’avvento di internet, che ha cambiato il nostro modo di comunicare, il nostro livello di attenzione e anche il nostro modo di ragionare; un impatto che con l’IA si amplierà esponenzialmente. Se proseguiremo con questo passo, senza limiti e regolamentazioni, l’IA non sarà più un aiuto per l’essere umano, ma ne diventerà ben presto un dittatore. Non passerà molto tempo prima di trovarci a lottare per dimostrare che il nostro contenuto è originale, che un’informazione è vera, che un’immagine è autentica. Tanto per citarne una, le fake news sono già una piaga capace di pilotare le coscienze: la situazione non potrà che peggiorare. A guadagnarci veramente saranno solo coloro che deterranno le redini di questo potentissimo strumento.
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